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Il coraggio di investire sull'azienda

di Marco Alfieri e Paolo Bricco

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20 settembre 2009


Al telefono, la voce si rompe. «Guardi, io ci ho provato. Ho venduto due appartamenti in Liguria e in Sardegna. Ho liquidato i titoli di Stato. Ma non è bastato». Cronache di un settembre difficile in cui, oltre alla rabbia e all'orgoglio, inizia a coagularsi un sentimento di vergogna per tutte quelle complessità che non si riescono ad affrontare. «Il mio unico rammarico - dice il titolare di un'azienda meccanica oggi in via di liquidazione - è di non avere messo nella mia società, negli anni buoni, più soldi. Questo sì: forse l'avrei dovuto fare».
Vitale ed elastica, a tratti geniale, ma anche minuta e sottocapitalizzata. L'impresa famigliare italiana ha spesso il proprietario Porschemunito, dalle frequenti gite a Chiasso, e una patrimonializzazione sistematicamente inferiore rispetto alle concorrenti tedesche, francesi e perfino spagnole. E, oggi, questi limiti del nostro capitalismo a prato basso iniziano ad emergere, non senza drammaticità. Adesso, che la pax fra banche e imprese si è rotta e che il confronto sui mercati non ha in palio la crescita bensì la sopravvivenza, i numeri assumono un significato preciso. Secondo Prometeia, le aziende che hanno fino a 2,5 milioni di fatturato dispongono di una capitalizzazione inferiore del 30% rispetto ai competitor internazionali; idem da 2,5 a 10 milioni di ricavi; quelle da 10 a 50 milioni sono sotto del 20% e quelle da 50 a 150 milioni del 18 per cento. «L'altra faccia della medaglia - nota Marco Mutinelli, docente di Gestione aziendale all'Università di Brescia e gestore della banca dati sull'internazionalizzazione Reprint - è che, se non hai soldi tuoi, devi ricorrere strutturalmente di più al credito bancario». Una fragilità e una dipendenza dall'esterno che risalta ancora di più facendo un confronto europeo.

Se come indicatore si prende il rapporto fra mezzi propri (capitale sociale, riserve e utili non distribuiti) e mezzi propri più mezzi di terzi (in sostanza debiti bancari), la nostra impresa è costantemente sotto di almeno tre punti. Per l'Italia questo rapporto è in media pari al 27,9%, contro il 31,7% della Germania, il 31,6% della Francia e il 37,7% della Spagna. Per le nostre aziende fra i 50 e i 99 addetti, siamo al 27,3%, contro il 30,5% delle tedesche, il 33% delle francesi, addirittura il 38,6% delle spagnole. Per quelle fra i 100 e i 249 occupati, siamo al 28,1%, a fronte del 32% delle tedesche, del 32,2% delle francesi e del 37,7% delle spagnole. Le cose di fatto non cambiano quando si sale di dimensione, fra i 250 e i 499 dipendenti: 30,3%, rispetto al 27,5% francese (unico caso di vantaggio), al 32,1% tedesco e al 35,3% spagnolo. «La fragilità di fondo connaturata al nostro modello - osserva l'industrialista Patrizio Bianchi - assume un profilo di maggiore criticità in questo specifico passaggio». Per dodici anni direttore della rivista "L'Industria" e storico collaboratore di Romano Prodi, Bianchi ricorda che, stando alle ultime Considerazioni finali di Mario Draghi, su 65mila imprese che si sono ristrutturate, soltanto 5mila hanno completato un decisivo risanamento finanziario.
«E tutte le altre? Di sicuro soffrono ancora di rilevanti carichi debitori. Dunque, bisogna tornare a ragionare di capitale di rischio», afferma l'economista. Che poi aggiunge, con la passione di chi ha studiato per una vita le Pmi: «Non vorrei tirare fuori il solito discorso. Però, in questo momento appare penalizzante una struttura di impresa fondata in prevalenza sul controllo familiare, in cui la modernizzazione di Borsa non è riuscita a creare un mercato dei diritti di proprietà. Se non hai equity da terzi, inevitabilmente dipendi dalle banche. E il mix sottopatrimonializzazione e debito può diventare tanto più pericoloso, quanto più tu sei piccolo. Oggi più di ieri».

Certo, spesso sono gracilità che affondano nel Secondo dopoguerra. Molte macerie e tanti impianti industriali da ricostruire, una coesione sociale da ristabilire, un passato da mettersi alle spalle e una funzione strategica a ridosso del sipario di ferro dei regimi comunisti. «Il credito era dunque indispensabile per compensare un capitale di rischio inevitabilmente debole. Come dire: il sistema bancario rimaneva strategico per la ricostruzione e per il consenso sociale, per inserire al più presto il paese nel processo consumistico, per farlo accedere alla welfare economy», spiegano Stefano Firpo e Renato Maino, economisti e collaboratori del sito Lavoce.info. Eppure questa tendenza di lungo periodo, accentuatasi negli anni 90 con la crisi dei grandi gruppi privati e il parziale ridimensionamento del sistema pubblico post-Iri, non può più essere esibita come un alibi assoluto. Tanto più che oggi siamo in mezzo a una crisi che giocoforza «ha avviato un processo di selezione delle imprese in cui la capitalizzazione, e quindi la capacità di disporre di risorse finanziarie per lo sviluppo di programmi di investimento, risulterà decisiva», al bivio tra rilancio e moria, come ammette Anna Maria Artoni, presidente di Confindustria Emilia Romagna. In fondo sono i numeri di una recente indagine a confermarlo: la difficoltà a reperire le risorse finanziarie necessarie ad investire, nella percezione degli imprenditori emiliano-romagnoli, è schizzata nel giro di un anno dal 17 al 35 per cento. «Il che significa - continua Artoni - che occorrono strumenti nuovi e incisivi per favorire questi processi. Pensiamo ad accordi con le banche per collegare l'erogazione di credito aggiuntivo a interventi di patrimonializzazione delle imprese». Insomma capitalizzarsi o morire. Per molti "piccoli" del capitalismo diffuso la morale della recessione potrebbe essere irrimediabilmente questa.

  CONTINUA ...»

20 settembre 2009
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